I titoli dei giornali sono occupati dal risultato delle elezioni finlandesi, curiosamente tralasciano la vittoria della sinistra dopo un ventennio, ma puntano l’obiettivo sul grande successo dell’ultra-destra populista di Veri Finlandesi, neo-alleati di Salvini ed evidentemente non toccali dal fallimento del reddito di cittadinanza in salsa nordica. Il fenomeno populista è passato dal 10,7% di voti al 22,3% dello scorso anno, spostandosi nel contempo da sinistra a destra. A livello di singoli paesi, l’Ungheria occupa il primo posto con il 68,9% dei consensi, davanti a Grecia con il 57% e Italia al 56,7%, questi sono gli unici tre casi con oltre il 50% di percentuale populista. Balza agli occhi il salto che l’Italia ha fatto con una crescita del 41,4% in 10 anni, era al 15,3% nel 2008.
Il termine populismo, etimologicamente, declina da un movimento politico russo del XIX secolo, e secondo Dahrendorf rappresenta un punto di equilibrio tra democrazia ed opportunismo, poi ripreso dal People’s Party statunitense. La definizione moderna identifica uno stretto legame tra il leader e le masse cui fa riferimento, si fa forte di una retorica di impatto immediato volta a catalizzare facili entusiasmi, puntando su di un esasperato nazionalismo ed accusando la classe politica al governo di essere pigra e corrotta. Stati di crisi economica e sociale, una rappresentanza politica incerta in cui non ci si riconosce più ed una situazione generale di emergenza sono il framework in cui prolifera il populismo. L’individuazione di un nemico alle porte è la miccia che accende le masse e fa da detonatore alle pulsioni populistiche di leader a caccia di facile visibilità. In Grecia vediamo come Alba Dorata si sia fatta alfiere di una xenofobia ed abbia puntato verso l’odio per l’immigrazione al fine di raccogliere consensi. L’UKIP di Nigel Farage nel Regno Unito e la Lega Nord in Italia, hanno puntato tutto sull’avversione all’Europa e su un nazionalismo isolazionistico ignorante e fuori dai tempi per avere un proprio bacino elettorale.
Questo ci porta al cuore del problema, se così lo vogliamo definire, che è il populismo rapportato all’Europa. La componente populistica dei partiti sopra richiamati, intrisa di nazionalismo, xenofobia, razzismo, nell’indicare tutto il male e le colpe della crisi non in dissennate politiche nazionali, ma in una Eurozona che fra mille errori ed errori strategici, non può che prendere atto di essere composta da 18 diversi bilanci nazionali ed altrettante politiche fiscali. L’uscita dall’Eurozona e dalla UE come semplicisticamente affermato, non solo è tecnicamente impossibile, ma politicamente assurdo. Quali sono gli aspetti positivi del populismo? Se vista come stimolo ad una maggiore consapevolezza della governance europea verso le critiche portate rispetto ai temi portanti di questo movimento, come immigrazione, che non deve essere rifiutata aprioristicamente, ma gestita con umanità e ragionevolezza. Una burocrazia opprimente che risulta ancora più greve di quella nazionale, un’austerity che viene applicata in modo cieco e dissennato, sanando magari i bilanci, ma distruggendo l’essenza stessa dell’europeismo.
Il sistema di voto proporzionale, comunemente diverso dal maggioritario vigente nella maggioranza degli stati, ha comportato che partiti violentemente anti-europeisti come quelli di Farage e Le Pen, siano assenti o poco rappresentati nelle rispettive assemblee, ma numerosi a Strasburgo. Fino a quando la UE potrà contare sulla frammentazione di questi partiti finora, fortunatamente, incapaci di costruire un fronte comune? Un quarto, se non un terzo, del Parlamento europeo in mano a forze avverse l’Unione può non influire sui meccanismi di voto, ma la sua spinta di attrazione gravitazionale non può per questo essere ignorata. Le elezioni che si avvicinano potrebbero portare a saldarsi tutte queste componenti euro-scettiche e formare un blocco avulso dallo spirito europeo nel prossimo Parlamento.